Il Ticino è pronto per un’emergenza sismica?

In Ticino nessun attestato anti-sisma è obbligatorio, ma dal 1989 viene rispettata la normativa SIA, della Società Svizzera Ingegneri e Architetti. Il rischio maggiore è dunque per le case costruite prima degli anni ’80 che potrebbero non reggere a sismi di 6.0 sulla scala Richter. Alcuni dati di inizio 2000 parlavano del 90% di case che non rispettano queste normative. È ancora così?

Italy Quake
(AP Photo/Gregorio Borgia)

 

Dopo il tragico terremoto in Centro Italia che ha fatto oltre 290 morti, ci si interroga sulle norme antisismiche anche in Ticino. Due interrogazioni dopo il sisma in Emilia Romagna del 2012 – a firma dei deputati PS Bruno Storni e del leghista Giancarlo Seitz – avevano chiesto già all’epoca al Consiglio di Stato se il nostro Cantone è pronto all’emergenza sismica. In Svizzera infatti si contano circa 200 sismi ogni anno. Le zone più colpite sono il Vallese, Basilea, l’Engadina, e la Valle del Reno nel canton San Gallo. Un terremoto di magnitudo 5 con danni leggeri è registrato ogni 10 anni, uno di magnitudo 6 ogni 100. Attualmente solo i cantoni di Argovia, Basilea Città, Giura, Nivaldo e Vallese hanno introdotto l’obbligo di presentare un attestato anti-sisma. Il Canton Friborgo ha recentemente legiferato in questo senso.

Nonostante il Ticino non sia in una zona a rischio, quali sono e come funzionano le norme antisismiche qui da noi? “In Ticino come in Svizzera le primissime norme datano dagli anni ’70” ha spiegato ai microfoni di Radio 3i Alessandro Dazio, esperto specializzato in ingegneria sismica delle strutture. “Poi c’è stato un aggiornamento nel 1989, le normative più recenti sono del 2003. Le prime non erano sufficienti, ma a partire dagli anni ’90 abbiamo normative all’avanguardia”.

Ma queste norme sono obbligatorie? “Le norme in Svizzera rappresentano lo Stato dell’Arte riconosciuto, per questo motivo secondo il Codice delle Obbligazioni sono da applicare per la costruzione degli edifici. Coloro che appartengono alla Società Svizzera degli Ingegneri e Architetti sono tenuti, per statuto, a tenerne conto. In teoria per le costruzioni dopo il 1989 sono dunque state applicate queste normative antisismiche”. Dello stesso avviso l’ingegnere Cristina Zanini Barzaghi, contitolare di uno studio d’ingegneria che si occupa anche di questi temi e autrice dell’articolo “Costruzioni e sisma nella Svizzera italiana” del 2010, la quale spiega che in Ticino le normative della categoria professionale emanate dalla norma SIA (Società Svizzera degli ingegneri e architetti) sono delle regole dell’Arte, ma non sono prescritte per legge. Spesso la legge le menziona, ma non sono obbligatorie anche se i professionisti le considerano come tali.

Chi vigila dunque? “Di regola la responsabilità è in primis del committente, che deve accertarsi che i progettisti incaricati hanno previsto il dimensionamento sismico. Per le nuove costruzioni è ormai una consuetudine, ma nel caso degli edifici esistenti il tema va affrontato ad esempio richiedendo una specifica perizia”, risponde Zanini Barzaghi. Secondo alcune cifre del 2005, il 90% delle case in Svizzera non sarebbe a prova di sisma, perché costruite prima del 1989, data in cui sono entrate in vigore le leggi moderne anti-sisma. Il dato è ancora attuale? “Difficile da dire” sottolinea Cristina Zanini Barzaghi. “Non esistono numeri precisi, il 90% era un’affermazione molto forte fatta dall’ex-professore del Politecnico di Zurigo Bachmann per sensibilizzare l’ente pubblico e i proprietari su questi fenomeni. Cifre precise non si possono fare. Quello che si può dire è che una gran parte degli edifici costruiti in precedenza degli anni ’80 possono avere delle mancanze in questo senso”.

A Filipino Senior Science Research Specialist points to recorded tremors on a seismogram
(KEYSTONE/EPA/ALANAH M. TORRALBA)

Come reagirebbe dunque il Ticino a un sisma simile a quello del Centro Italia?“Anche da noi come in Italia ci sarebbero strutture che reggerebbero, altre purtroppo no, e subirebbero danni importanti sino al collasso” – ci risponde ancora l’ingegner Dazio. “A priori è però difficile dire quali resisterebbero o meno. Tuttavia ci sono differenti tipologie che si comportano meglio o peggio. Quelle in acciaio o cemento armato ad esempio hanno un comportamento sismico migliore rispetto a quelle in muratura, ma anche in questo caso dipende come le strutture sono state eseguite. Ad oggi il modo migliore per capire se la propria casa regge a un sisma è quello di eseguire una perizia da parte di un esperto”.

Come potrebbe reagire invece una città come Lugano? Secondo Zanini Barzaghi, “per le nuove costruzioni già da diversi anni i progettisti applicano le norme in vigore, anche le costruzioni pubbliche sono sicuramente allestiti in base a queste norme. Ma il rischio è più alto per gli edifici privati, specialmente per le palazzine con più di tre piani, costruite in mattoni con poco cemento armato”.

 

Lugano golfo
Lugano – (FOTO FIORENZO MAFFI)

 

Le misure del Cantone. Alla luce delle norme in vigore e del contesto descritto, già nel 2012, nella risposta alle interrogazione di Storni e Seitz il Consiglio di Stato non riteneva necessario inserire nella legislazione ulteriori norme in materia anti-sismica. Da parte sua la Confederazione ha messo in campo da qualche anno una campagna di sensibilizzazione per i proprietari di immobili pubblici e privati e anche un controllo delle strutture di sua proprietà. Per Walter Bizzozero, Capo Sezione della Sezione della logistica del Cantone “sebbene non esistono dei vincoli che le vecchie costruzioni devono rispettare. Esiste però, sempre elaborata dalla SIA, una specifica direttiva, che aiuta i progettisti e i committenti a valutare come consolidare la struttura esistente di un edificio nell’ambito di un risanamento. Lo stesso dovrà dimostrarsi proporzionale, sostenibile e giustificato. Per prassi l’amministrazione cantonale esegue questa verifica su ogni stabile da risanare, riservandosi una significativa quota parte finanziaria da impiegare per le indagini, la progettazione ed infine l’esecuzione degli interventi mirati a ridurre il più possibile i rischi generati da un terremoto. In conclusione per le nuove costruzioni sia pubbliche che private è compito dell’ingegnere civile adottare quegli accorgimenti in grado di contrastare eventuali scosse sismiche. Le Norme distinguono tre diverse tipologie di costruzioni, in base all’utilizzo e al numero di occupanti previsti.

 

Qui l’intervista agli esperti su radio3i

Chi guadagna dalla migrazione?

La parola è sulla bocca di tutti in questa calda estate. Ma dietro ai fenomeni migratori circola un business miliardario. Secondo le ultime stime dell’Europol, sarebbe circa tra i 3 e i 6 miliardi di euro il fatturato dei trafficanti di uomini. Per lo più organizzazioni criminali nord africane, balcaniche, ma anche le mafie italiane e l’Isis.

 

Immigrazione-clandestina
Un viaggio della salvezza

 

“Quando sono arrivato non potevo fare nulla, io ora posso fare tutto ciò che voglio con il consenso del capo. Vendere droga, rubare, mi è concesso tutto qui in Italia, basta che alla fine pago il boss”. Willy è un nigeriano di 29 anni, capelli rasta spettinati e ribelli, barba incolta. Ha lasciato la Nigeria nel 2013. Ora vive a Ballarò e vende un grammo di marijuana per 10 euro. Willy è l’esempio di come la mafia siciliana ha trasformato la crisi dei rifugiati in Europa in un proprio vantaggio finanziario. E ne approfitta anche assoldando povera gente in cerca di miglior vita socializzandola al crimine. E d’altronde del giro miliardario lucrano molte organizzazioni criminali dall’ISIS alle bande slave.

260mila sbarchi e 3mila morti in otto mesi

Il fenomeno è ora sempre più alle porte di casa nostra. C’è un mondo che bussa al confine sud della Svizzera. In questi giorni i volti di migliaia di persone che scappano da guerre e carestie sono prepotentemente entrati – volenti o nolenti – nelle nostre case attraverso i media. Un flusso sempre più vasto e che non sembra cessare a breve. Il 2015 è stato infatti l’anno della migrazione in Europa. Lo scorso anno ben 1’015’078 persone hanno attraversato il Mediterraneo. Si tratta del dato più alto di sempre, se si pensa che nel 2014 erano state 216 mila i migranti (ben 4 volte in meno) e nel 2013 “solo” 60mila. I dati nel 2016 per quanto riguarda le persone che cercano di attraversare il Mediterraneo per giungere sulle coste europee, sono stabili. Secondo gli ultimi dati dell’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio dell’anno al 19 agosto, un totale di 266.525 migranti sono giunti in Europa via mare, soprattutto in Italia (101.507) e in Grecia (162.015). Nei primi sette mesi del 2015 erano invece stati 225’692. La chiusura della rotta balcanica ha ridotto drasticamente gli arrivi in Grecia, ma anche in Italia. Ma soprattutto l’accordo tra UE e Turchia – seppur traballante – ha attutito l’impatto sui flussi migratori. Un viaggio però non privo di rischi quello che devono affrontare queste persone. Fino ad oggi sono infatti morte o scomparse nel Mediterraneo 3’156 persone, nei primi otto mesi del 2016 si è arrivati quasi ai dati raggiunti l’anno scorso, quando in tutto il 2015 sono stati 3’771 i decessi o le scomparse, 800 in più rispetto al dato registrato per lo stesso periodo del 2015, quando il Progetto Missing Migrant aveva registrato 2.333 decessi (dal primo gennaio al 18 agosto 2015). Dati solo parziali se si pensa che le Nazioni Unite stimano che in tutto il Mondo vi sono 232 milioni di persone che già sono migranti a tutti gli effetti. E la maggior parte proviene da paesi in via di sviluppo.

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Dati UNHCR del 19 agosto 2016

 

Fino a ottomila euro a viaggio

Un business enorme se si pensa che ognuno di questi spostamenti genera soldi, palate di soldi. Un’inchiesta coordinata dal procuratore dalla Dda di Trieste Carlo Mastelloni e dal sostituto Massimo De Bortoli ha svelato i costi delle varie tratte. Si va dai 350 ai 500 euro per la Budapest (campo profughi di Bicske) all’Italia; dai 2 ai 3 mila euro per percorsi più impegnativi lungo la rotta balcanica. Ultimamente i trafficanti avevano pensato di poter organizzare i trasferimenti direttamente dal Pakistan, attraverso il passaparola. E, in tal caso – come emerge in particolare dalle intercettazioni – avrebbero richiesto dai 5 mila euro fino a 8 mila. Sono stati gli stessi clandestini giunti in Italia a bordo di furgoni, a fornire conferme su questo punto ai carabinieri. Un pakistano rintracciato a Opicina, per esempio, ha raccontato che suo padre aveva pagato 5.500 euro. Un altro migrante ha riferito che la sua famiglia aveva versato 3 mila euro all’inizio e altri 500 per il viaggio da Budapest all’Italia.

Il picciotto scafista tra: prostituzione, caporalato e spaccio.

Proprio in Italia sembra che le mafie stiano facendo affari assieme alle organizzazioni africane e balcaniche. Come spiega il blog Inside Crime sono almeno 5 i modi con cui la mafia fa affari nel campo dell’immigrazione: organizza il viaggio attraverso il Mediterraneo, intasca i fondi statali previsti per la loro accoglienza in Sicilia, Calabria o Puglia, organizza poi lo sfruttamento del lavoro nero nei campi e utilizzare i migranti come spacciatori o le donne come prostitute. I documenti della procura di Catania che stanno indagando su società controllate da mafiosi da parte di funzionari governativi corrotti, rivelano come “la mafia ha stretto legami con alcuni contrabbandieri del Nord Africa e organizzato la consegna di navi cariche di profughi dalle spiagge egiziane di Gammasse e Jamsa in Finlandia, offrendo riparo, cibo e trasporto verso l’Europa del nord in cambio di ingenti somme di denaro che i rifugiati pagano a contrabbandieri egiziani”. Per ritrovare i primi legami tra mafia e migranti bisogna andare nel marzo 2011, quando una grande barca da pesca egiziana, lunga 25 metri, era a largo della costa orientale della Sicilia. A bordo c’erano 190 migranti. Lì arrivò poi La “Felice”, una barca più piccola che aveva il compito di trasportare i migranti a terra. Era di proprietà della famiglia di Salvatore Greco, boss del clan Brunetto, affiliato alla famiglia Santapaola. Ma qualcosa andò storto perché arrivarono anche i poliziotti. Greco e il suo socio egiziano, Mohamed Badawi Hassan Arafa, riuscirono a fuggire su una delle due barche. Il boss siciliano e il figlio Massimo sono stati arrestati 3 giorni più tardi e poi condannati a 5 anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Salvatore Greco e Arafa Badawi facevano parte di un rete di contrabbando che organizzava i viaggi per portare i migranti al largo delle coste siciliane, dove poi venivano prelevati dalle barche per il trasferimento a terra dalla madre-nave. Una volta arrivati in Italia, i migranti venivano nascosti per poi essere trasportati verso il nord Europa. Un business equivalente a circa 800 mila euro a viaggio. Ma dopo il viaggio c’è per alcuni di loro anche lo sfruttamento: spaccio, prostituzione, e caporalato nei campi. Come hanno svelato le autorità italiane, a Palermo e in altre grandi città siciliane (ma non solo), la mafia sta usando i richiedenti asilo, per lo più africani, come spacciatori di droga che operano apertamente nel centro delle città. Come il nostro amico Willy. Per chi non cade nella rete dello spaccio c’è invece il lavoro nei campi, dove i migranti vengono sfruttati dalle dinamiche di caporalato a raccogliere frutta  e verdura a basso costo. Le donne africane vengono invece spinte a prostituirsi. Secondo la polizia, le giovani donne rifugiate pagano così il loro debito per il viaggio verso l’Europa. Secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim), queste donne nell’80 per cento dei casi giungono in Italia per essere destinate al mercato della prostituzione. L’operazione Caronte del 2011 portò a ventidue arresti e più di cinquanta persone denunciate dal Piemonte alla Calabria per associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e riduzione in schiavitù. Dopo lo sbarco, le donne venivano trasferite nei Centri di accoglienza dai quali l’organizzazione criminale le faceva fuggire per poi affidarle alla rete degli sfruttatori. C’è anche lo sfruttamento dei fondi statali. Sempre la procura distrettuale antimafia di Catania ha aperto un’inchiesta sull’assegnazione dell’appalto del centro rifugiati Cara di Mineo alla cooperativa “Calatino Terre di Accoglienza”. Tra gli indagati c’è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto a Roma nella giunta di Walter Veltroni e membro del Tavolo di coordinamento nazionale per l’accoglienza dei rifugiati. Odevaine, arrestato a dicembre 2014 nell’operazione Mafia Capitale, è accusato dai magistrati romani di aver manipolato flussi migratori e appalti in cambio di soldi e di aver condizionato la gestione della struttura di Mineo. Nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale, il Tribunale del Riesame confermò poi la corruzione di Odevaine con l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa guidata dal boss della malavita romana Massimo Carminati, ex membro della banda della Magliana. In maggio la difesa dell’uomo ha deciso di patteggiare la pena: due anni di reclusione e 250 mila euro di multa, evitando il processo.

I legami tra Mafia e ISIS

Il 5 agosto scorso è scattata l’operazione che ha portato all’arresto di otto cittadini stranieri, accusati di far parte di una banda di trafficanti che favoriva l’immigrazione clandestina a Caserta. Il loro presunto capo è Mohamed Kamel Eddine Khemiri, 41enne, nato a Tunisi, considerato un possibile jihadista: si era auto-radicalizzato sul web e inneggiava all’Isis sui social dove aveva festeggiato per gli ultimi attentati rivendicati dallo Stato islamico e dove si definiva “un isissiano”. Ora è indagato dalla Procura distrettuale antiterrorismo di Napoli per associazione con finalità di terrorismo internazionale. Per gli inquirenti il tunisino, che viveva nell’appartamento sopra il luogo di culto islamico e che qualche conoscente e amico chiamava “Bin Laden”, oltre a fornire a stranieri permessi di soggiorno con documenti falsi, facendosi pagare 600 euro a pratica, Khemiri è accusato di essere il capo della banda di trafficanti di migranti: i carabinieri del Ros, coordinati dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, hanno arrestato gli otto stranieri con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e alla falsificazione di documenti. Khemiri è uno dei destinatari della misura cautelare. Quattro assieme a lui le persone finite in carcere: Badreddine Aifa, tunisino, 27 anni; Mohammed Charraki, marocchino di 51 anni; Kamrul Mohammed, 42 anni del Bangladesh; Alì Shek, 32 anni, anche lui originario del Bangladesh.

 

ansa - giuliana devivo - Illegal immigrants are seen in a detention center in Kyprinos, in the region of Evros, at the Greek-Turkish borders
EPA/NIKOS ARVANITIDIS

Un’altra operazione è andata in scena nel mese di agosto, sempre in Italia del Sud. In questo caso è stata sgominata una banda dedita al caporalato in Calabria. In tutto 49 persone sono finite nelle maglie della giustizia. Tra febbraio 2015 a maggio del 2016 le indagini hanno permesso di identificare un soggetto extracomunitario, di nazionalità pakistana, ritenuto un vero e proprio punto di riferimento nella piana di Sibari, nel Cosentino. Gli imprenditori agricoli che avevano bisogno di manodopera illegale ed a basso costo chiedevano a lui. E lui era in contatto con gli affiliati di una ‘ndrina locale che garantiva protezione. 19 immigrati irregolari dormivano in stalle e porcili degradati. Gli “operai” clandestini lavoravano in condizioni prive di sicurezza per 3 – 5 euro al giorno. L’esame delle transazioni finanziarie ha consentito di ricostruire i guadagni illeciti del “caporale”, ossia quasi 250.000 euro, incassati in poco più di un anno, in parte destinati anche alle cosiddette “bacinelle” delle organizzazioni criminali. La rimanente parte dei guadagni dell’attività di intermediazione veniva trasferita in Pakistan, paese di origine dell’uomo, attraverso servizi di money-transfer e post-pay. Secondo la procura questa nel mezzogiorno è una diffusa prassi illecita. I procuratori antimafia dicono che Cosa Nostra considera la crisi dei rifugiati nel Mediterraneo una manna dal cielo. “Dietro i contrabbandieri c’è un business multimiliardario e che, naturalmente, attira la mafia”, ha detto Maurizio Scalia, procuratore di Palermo, che indaga sulle reti di trafficanti. Lo sfruttamento dei migranti da parte della mafia sembra dunque destinato a crescere. L’aumento dei flussi migratori e la loro potenzialità di generare facili profitti è un business troppo grande per essere ignorato dalle famiglie criminali.

Sui legami tra Isis e mafie, proprio lo scorso 4 agosto il ministro della Giustizia Andrea Orlando al Comitato Schengen della Camera italiana ha detto che: “ci sono elementi che fanno ipotizzare un ruolo dell’Isis sulla gestione dei flussi di profughi verso l’Europa”. A svelare i nessi tra organizzazioni mafiose italiane e gruppi Jihadisti è stato anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: “L’Isis spinge i terroristi in Italia”, ha scritto nel suo libro Il contrario della paura. Roberti spiega che le sinergie esistono soprattutto perché “i terroristi sono sì interessati a armi e strutture logistiche di cui la camorra dispone, ma la più forte necessità di allearsi è il controllo capillare di quel consenso sociale che la mafia dispone e indispensabile al successo dell’opera di proselitismo e di arruolamento di nuovi militanti”. Una relazione win-win visto che dall’altra parte il terrorismo distoglie attenzione investigativa allo Stato. Per questo conclude Roberti i terroristi (non solo jihadisti ma anche di matrice politica si pensi alle BR) “hanno sempre rappresentato una forza per la mafia”. Le tre mafie si rivelano dunque le più naturali interlocutrici sui migranti e non solo. Il fenomeno è rivelato anche dall’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne che lancia l’allarme: la crisi migratoria è sfruttata dai terroristi per entrare in Europa, conferma Frontex nella sua relazione. Ma questi però sono fenomeni marginali se confrontati alla vastità del fenomeno migrazione. “E’ una situazione allarmante perché questi trafficanti (di esseri umani) hanno come obiettivo talvolta quello di finanziare il terrorismo e talvolta far infiltrare (in Europa) membri di Isis tramite la migrazione”, ha detto il giudice belga Michele Coninsx, presidente di Eurojust, l’organizzazione Ue contro la criminalità.

 

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Migranti a Como, agosto 2016

 

Migrazione: 6 miliardi di business

I numeri sono da capogiro quando si tratta di quantificare la redditività dalla migrazione. In tutto le reti criminali che gestiscono il traffico di migranti hanno fatturato nel 2015 tra i 3 ed i 6 miliardi di euro: “si tratta del mercato criminale in più rapida ascesa in Europa”, ha detto il direttore di Europol, Rob Wainwright, al Comitato Schengen nei mesi scorsi. Secondo i dati del 2013 dell’osservatorio Demoskopika solo la ‘ndrangheta per prostituzione e immigrazione guadagnerebbe oltre mezzo miliardo circa di euro. Nel 2015, ha spiegato sempre Wainwright, “c’è stato un flusso senza precedenti di migranti ed il 90% ha usato servizi illegali che hanno facilitato il loro viaggio verso Europa. Ciò significa che l’attività criminale dei trafficanti è il cuore del problema e deve essere il cuore della nostra risposta”. In tutto sono stati identificati 40mila trafficanti di uomini: “si tratta di gruppi multinazionali, che provengono dai Paesi di provenienza dei migranti, come la Siria, di transito, come la Turchia, ma anche di molti Paesi europei”, ha aggiunto Wainwright. “La nostra risposta a questi gruppi è resa meno efficace per la mancanza di cooperazione dei Paesi di partenza dei migranti come la Siria”.  La lotta dunque a questo fenomeno è ancora agli albori. In conclusione mi viene in mente una frase che ho letto nel 2013: “Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C’hai idea? Il traffico di droga rende meno”. Questo quanto si legge delle carte delle intercettazioni nell’indagine su Mafia Capitale. E forse, se così andranno le cose, i rifugiati potrebbero essere il nuovo “oro” per la mafie.

“In Etiopia a rischio 90 milioni di persone”

Dialogo con il già candidato Nobel per la pace Don Mussie Zerai, fondatore dell’associazione Habeshia. “Situazione frutto del fallimento dell’UE, non solo l’Eritrea in pericolo, il fenomeno nuovo è l’Etiopia paese di 90 milioni stanno esplodendo scontri. E sui respingimenti a Como: ho visto 14enni con parenti in Svizzera respinti”.

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L’angelo dei profughi, viene chiamato così Padre Mussie Zerai, religioso eritreo, fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo, che nel 2015 ha sfiorato il Nobel per la pace. Nella sua attività umanitaria  ha ricevuto migliaia di telefonate dai barconi alla deriva nel Mediterraneo. Ha salvato  oltre 5 mila persone. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. Per vocazione è diventato attivista per i diritti umani. Ha studiato filosofia a Piacenza dal 2000 al 2003, Teologia nei cinque anni successivi e poi Morale sociale presso l’Università Pontifica Urbaniana fino al 2010, quando è stato ordinato sacerdote. Subito dopo, nella tarda estate dello stesso anno, è stato il primo a segnalare la tratta degli schiavi nel Sinai.

 

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In questi giorni stiamo assistendo a un’emergenza umanitaria – quella migratoria – che sta assumendo proporzioni catastrofiche. A Como da giorni sono accampate 500 persone che tentano senza successo di raggiungere chi la Germania chi i paesi del Nord. In questo drammatico contesto giungono le cifre ufficiali della Confederazione. Nel solo mese di luglio dalla Svizzera sono stati respinti verso l’Italia oltre 4’000 migranti, 3’500 dal solo Ticino. E oggi la Confederazione risponde alle accusa di Amnesty International che ai nostri microfoni aveva denunciato mancati ricongiungimenti familiari per minorenni e pratiche di respingimento illegali. “Anche i minori devono richiedere asilo formalmente, se no avviene la riammissione semplificata in Italia”, spiega David Marquis, portavoce dell’Amministrazione federale sul Corriere del Ticino. “I minori tuttavia – specifica – richiedono una protezione speciale che il corpo della guardie di confine assicura”.

Per Padre Mussie Zerai, religioso eritreo, già candidato al Nobel per la Pace nel 2015, fondatore dell’associazione Habeshia, attiva anche in Ticino, la situazione è complessa. “Io – ci dice – sono a conoscenza di 14 minorenni che avevano parenti in Svizzera e che sono stati rispediti in Italia, altri migranti sono stati riammessi nella Penisola senza che potessero comunicare. Vengono fatti scendere dai treni e quando un bus è pieno vengono trasportati verso Como”.

Sono giunti ieri inoltre i dati dell’Asilo che ci dicono che diminuiscono rispetto al 2015 le richieste d’asilo nel nostro paese (quasi del 36%) a quota 2’477 in luglio. Calano soprattutto le richieste di cittadini eritrei rispetto all’anno passato. Il fenomeno nuovo è invece quello dei cittadini etiopi che attraversano deserti e Mediterraneo alla ricerca della salvezza. Proprio nel loro paese la situazione si sta acuendo ed è sempre più complessa, ci spiega Padre Zerai. “L’Etiopia è un paese di 90 milioni di abitanti, non  è piccolo come l’Eritrea che ne ha solo 6 milioni, se la situazione non si risolve avremo milioni di persone in fuga”.

Qui l’intervista a Don Zerai.

I misteri del deep web: la rete “sommersa”

Nel deep web, o anche web nascosto, puoi comprare di tutto: dalle armi, alla droga e anche assoldare un killer. Il tutto con un click e senza lasciare traccia. Sempre più utilizzato da organizzazioni criminali mafiose o terroristiche, ma anche da semplici cittadini. Il killer di Monaco ha comprato la sua pistola in un sito criptato. Ora anche l’antimafia italiana lancia l’allarme.

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La parola nuova è deep web, internet nascosto, la rete parallela. In sostanza si tratta di pagine online non indicizzate da Google e dai motori di ricerca. Uno spazio pressoché infinito oltre al web in cui tutti navighiamo liberamente e alla luce del sole. Secondo alcuni esperti questo è però soltanto un granello nel deserto, la punta dell’iceberg di un mondo più vasto chiamato anche dark web, il luogo dove la navigazione è criptata e la propria identità virtuale è anonimizzata. Secondo alcune stime il web “canonico” rappresenta solo la minima parte della vastità della rete, la quale sarebbe ben 400 volte più grande. Attualmente sono 500 milioni i domini registrati su internet, senza contare le pagine secondarie e i siti morti. Secondo alcune stime il clear web rappresenta lo 0,02 percento della totalità dei dati presenti su internet. Quando cerchiamo su google non otteniamo nemmeno lontanamente la metà di quello che esiste realmente.

Ma come entrare? Nel web “sommerso” si accede solo attraverso software speciali, un utente deve utilizzare link diretti, spesso terminanti con .onion, i navigatori cercano di occultare la propria identità con programmi come Tor (The Onion Router) I2P e Freenet. Tramite l’utilizzo di questi browser (equiparabili a firefox o chrome) è molto più difficile tracciare l’attività Internet dell’utente. Esso garantisce infatti l’anonimato assoluto perché trasforma ogni Pc a lui connesso – tramite server di utenti gestiti da volontari – in un nodo su cui rimbalza la connessione. Tracciare la provenienza del collegamento dunque risulta molto difficile.

Deep-web-composizione

Sotto una prima superficie, dove si trova il deep web, si va sempre più a fondo nel dark net, a cui si accede con questi software speciali. Un terreno fertile per mafie e terrorismo. È possibile infatti comprare armi, droga o anche assoldare un killer. Basta qualche click e un po’ di fortuna e il gioco è fatto. All’interno del deep web esistono veri e propri siti come amazon, chiamati charter web, una sorta di mercato nero dove si trova di tutto anche passaporti, filmati pornografici e pedo-pornografici. Uno dei più famosi era Silk Road chiuso dal FBI nel 2013. Il fondatore, sotto lo pseudonimo di Dread Pirate Roberts venne arrestato e condannato all’ergastolo per i reati di associazione a delinquere, frode informatica, distribuzione di false identità, riciclaggio di denaro, traffico di droga, traffico di droga su internet e cospirazione per trafficare droga. Ross Ulbricht – questo il suo vero nome – era stato arrestato grazie ad agenti FBI sotto copertura infiltrati nella sua piattaforma, e aveva in seguito confessato dichiarandosi pentito delle conseguenze delle sue azioni. Silk Road è poi rinato come Silk Road 2.0, specializzato in droghe. Acquistare una Glock, a salve poi da riconvertire, con il numero di serie limato come ha fatto il killer di Monaco per 50 euro sulla darknet è dunque facile. Quasi come acquistare droga. «Per averla bastano 10 giorni e sono sufficienti 450-500 dollari». Anche i terroristi dell’Isis lo usano per caricare i loro materiali di propaganda che poi vengono diffusi attraverso chat e social network. Ora anche la DIA di Reggio Calabria e quella di Palermo lanciano l’allarme. Come spiega la relazione semestrale “la criminalità organizzata calabrese cerca di consolidare la sua presenza all’estero e mira ad espandersi proprio tramite il deep web e i canali di comunicazione non convenzionali”. “Oltre che per la pianificazione e realizzazione di traffici illeciti transnazionali – si legge – questi canali potrebbero rappresentare lo strumento relazionale chiave tra le ‘ndrine che insistono sul territorio nazionale e le propaggini internazionali delle cosche e delle altre organizzazioni mafiose, assieme alle quali avviare nuovi business criminali”.

Anch’io ho voluto provare a diventare un “criminale” nel web “sommerso” ed è bastato poco. Sul mio pc scarico il software TOR, che mi rende anonimo, mi registro con un servizio mail inventato. Attraverso una hidden wiki, una pagina dove si trovano link divisi per categorie, faccio le mie ricerche. Scelgo quello che mi conviene. Provo un sito di compravendita tipo Amazon, ma questo però è un mercato dove tutto è possibile anche l’illecito. Subito è possibile iniziare a fare acquisti pagando con il Bitcoin, la moneta virtuale.  Mi registro e nella home trovo di tutto. Dalla cocaina, alle pasticche di extasy, sino all’hashish afghana a poco prezzo. Trovo anche lo Xanax. Qui il venditore raccomanda di usare la testa. Sono più di mille le droghe disponibili. Fingo di comprare delle anfetamine e il sito mi chiede subito i bitcoin da versare. Per 100 grammi dovrò sborsare 200 euro circa con tanto di possibilità di consegna in 10 giorni in un pacco anonimo. Per ogni transazione andata a buon fine i server creano centinaia di operazioni false in modo che risalire a compratore e venditore è impossibile. Facendo un altro giro posso anche comprare documenti falsi o anche patenti rubate negli Stati Uniti, piuttosto che in Inghilterra. Qui si raccomanda di usare foto di buona qualità. Posso trovare anche siti dove riciclo il denaro o siti dediti al phishing di carte di credito. Posso anche comprare soldi falsi. Ma anche manuali e tutorial per creare bombe o fare un attentato terroristico. Oppure per 5’000 euro posso incaricare un sicario che opera in tutta Europa. Molti di questi siti però vengono cancellati dalle autorità oppure sono falsi ad opera di hacker, ad esempio quello che mi vuole vendere schiavi a pagamento. Dunque bisogna sempre stare in allerta. Se ci si addentra oltre si può fino arrivare ai bassi fondi del Dark web con siti pornografici o pedo-pornografici.

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Nel deep web dunque è tutto possibile, ma come dice la giornalista della Stampa esperta di questo tipo di fenomeni, Carola Frediani, il livello di attenzione suscitato anche dai recenti attacchi terroristici e una serie di arresti di compratori d’armi nelle darknet, avvenuti nei mesi scorsi fra Usa e Gran Bretagna, ha addirittura portato alcuni siti a disfarsi di questo tipo di vendite. Se trovare una pistola Dark Web non è difficile – spiega nel Frediani – comprarle agevolmente è un’altra storia. Le ragioni sono tre. La prima è il rischio di frodi: ancora si parla di un venditore che dopo aver intascato i soldi spediva un sacco di sale. La seconda è la spedizione: dove ti fai arrivare i pacchi? Un conto impacchettare, inviare e mimetizzare per posta un po’ di erba o Lsd, un conto far arrivare un fucile automatico. In genere in questi casi le armi sono inviate a pezzi, ma il rischio che siano intercettate è alto. La terza è il rischio di infiltrazione. Come dice il re degli aforismi Fabrizio Caramagna “Alcuni luoghi sono un enigma. Altri una spiegazione”. Il deep web rimane certamente un mistero.

“Camion bomba”

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Il metodo non è nuovo. Una delle sue declinazioni è chiamata “Camion-bomba”, la strategia di solito è utilizzata dai terroristi islamici in Medioriente. Automezzi pesanti carichi di esplosivo che si fanno saltare per le strade. Un metodo utilizzato anche da Al Qaida sotto la guida di Al Zarqawi sino alla morte nel 2006. Dopo di che la rottura, voluta da Al Zawahiri poiché le stragi potevano coinvolgere anche persone islamiche. Una rottura importante per capire le divergenze che separano Al Qaida dall’Isis. Proprio lo Stato islamico ha fatto propria la metodologia sanguinaria non badando alle conseguenze sui fedeli mussulmani. L’ultimo caso di camion bomba è in Iraq lo scorso 3 luglio, a pochi giorni dall’attentato in Bangladesh. 213 i morti, di cui molti bambini. Il camion frigorifero era pieno di esplosivo, al posto del gelo il fuoco: al volante un kamikaze dell’Isis che si è fatto saltare in aria a Baghdad, nell’intervallo tra il digiuno del sabato e quello della domenica, quando in tempo di Ramadan le famiglie escono a fare la spesa, si ritrovano per consumare un pasto prima dell’alba. L’attentato è avvenuto nel quartiere di Karada, storico cuore commerciale della città. In mattinata i palazzi intorno al cratere lasciato dall’esplosione bruciavano ancora.
Il metodo di veicoli sulla folla è storicamente utilizzato da Hezbollah in Medio Oriente. Ma non solo con camion, perché i mezzi utilizzati in questo caso sono semplici auto. Era il 6 marzo 2015 quando a Gerusalemme est, un’auto impazzita si era lanciata sui passanti israeliani nel quartiere arabo di Sheik Jarrah. Cinque persone, tra cui quattro membri delle forze di sicurezza, sono rimasti feriti. Morte quattro giovani ragazze, guardie della polizia di frontiera, la quinta persona coinvolta è un ciclista 51enne. “Probabilmente abbiamo che fare con un attacco con auto seguito dal tentativo attaccare i passanti con un coltello nei pressi di una stazione di guardia di frontiera. Il terrorista palestinese ha guidato la sua auto, l’ha poi volontariamente diretta verso gli agenti e poi è fuoriuscito dall’abitacolo con un coltello per tentare di colpire i passanti”, aveva detto un portavoce della polizia israeliana. Era il 5 novembre 2014, quando un’altra auto impazzita, con alla guida un palestinese, si era lanciata sulla folla in attesa del tram sempre nel rione di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme. Anche il quel caso l’attentato era stato rivendicato con un comunicato dal Movimento di Resistenza Islamica Hamas. Un episodio molto simile era avvenuto due settimane prima, il 22 ottobre, quando un’automobile aveva ucciso una bimba di tre mesi e ferito 8 persone, nella zona di Shufat.
Dopo Hezbolla, Al Qaida e ora lo Stato islamico, il metodo suicida è stato importato in Europa. Un attentato con un veicolo come quello usato a Nizza era stato invocato dal portavoce dello Stato Islamico Abu Mohammad al-Adnani a settembre 2014 e nel numero due della rivista Inspire (di al Qaida nella Penisola Arabica – Aqap), scrive Site. Un metodo che con un minimo di mezzi ha un massimo di effetti: 84 le vittime di Nizza e centinaia i feriti. “Il metodo – spiega Alain Rodier,  direttore del Centre français de recherche sur le renseignement al quotidiano 20 minutes – è stato anche considerato nelle commissioni di inchiesta e negli audit di sicurezza per i grandi eventi, come ad esempio l’Euro 2016. Due operazioni di questo tipo erano state perpetrate a Nantes e Dijon nel dicembre 2014″.
Oggi piangiamo le nostre vittime. E ci ricordiamo per qualche giorno che il terrorismo esiste anche da noi. Per poi chiudere gli occhi fino a che non succederà il prossimo attentato. E quando li riapriremo saranno di nuovo attoniti e lacrimanti.

Puglia dove la notte è buia

++ Scontro tra treni: fonti, quattro morti ++

(ANSA/VIGILI DEL FUOCO)
“L’80%  dei commercianti a Foggia e provincia paga il pizzo”, Pier Nicola Silvis, questore.
In questi giorni dove tutti parlano di Puglia dopo il terribile incidente ferroviario di ieri, ci sono dati che lacerano più delle macerie. La Sacra Corona Unità, non è forte come le più conosciute e internazionalizzate Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra, ma è molto violenta. Gli affari si fanno con lo spaccio, ma soprattutto con il racket. Da settembre a gennaio – spiega il quotidiano la Stampa in un articolo di Andrea Malagutti – ci sono stati quattro omicidi e otto tentati omicidi. E dieci bombe sono esplose davanti ai negozi. Nessuno però denuncia, o meglio solo in pochi. Era il novembre scorso quando una bomba ha devastato uno storico negozio di calzature del centro. L’esplosione è stata così forte da svegliare l’intero quartiere nel cuore della notte. La pax mafiosa sembra essere terminata il 23 gennaio scorso dopo il tentato omicidio di un esponente di spicco, spiega il sito ViceNews. Dopo una pace di circa 10 anni ora si teme il peggio, nel 2003 in dodici mesi si arrivò anche a 40 morti ammazzati.

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La leggenda vuole che la Società Foggiana sia stata creata: il 5 gennaio 1979, quando i principali esponenti criminali della zona si riunirono nell’Hotel Florio a San Severo. Il padrino per l’occasione era niente di meno che Raffaele Cutolo, arrivato in Puglia per scontare un soggiorno obbligato. Molto violenti sono oggigiorno i gruppi criminali di Cerignola a pochi chilometri dove si è verificato il dramma di ieri.
E l’incidente ferroviario è solo parte di uno spaccato. Spaccato che divide nord e sud Italia sempre più profondamente. Il lavoro da fare è ancora molto. Come sarà quello delle autorità giudiziarie. “L’indagine non si fermerà all’errore umano, dobbiamo scandagliare tutte le possibilità anche per non fare l’errore di fermarci a quello che è successo ieri”, ha detto il procuratore Giannella, poco prima dell’inizio dell’incontro tra i magistrati e gli investigatori che indagano sulla strage che ha insanguinato gli ulivi secolari. Forse chiarezza sarà fatta. Ma come cantava Caparezza: “Turista tu balli e tu canti, io conto i defunti di questo paese… Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia dove la notte è buia, buia, buia. Tanto che chiudi le palpebre e non le riapri più.”

La via della droga

Il mercato delle sostanze illecite frutta 580 miliardi di franchi l’anno nel mondo. La Svizzera non fa eccezione. Molti i gruppi criminali attivi: negli ultimi tempi primeggiano gli albanesi che hanno il monopolio dell’eroina e gestiscono lo spaccio di marijuana dai Balcani. I nigeriani invece, attivi soprattutto con la cocaina, sono radicati in Svizzera romanda. Chiusa la tratta dei migranti aperta quella della droga. Radiografia dei traffici nel nostro paese.

 

Un camion di carta igienica: dalla “capitale” europea della Marijuana alla Svizzera.

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Oppio, Afghanistan

Dal promontorio di Lazarat non si vede il mare, ma nei giorni limpidi si può vedere la frontiera con la Grecia. Lazarat è un piccolo comune situato nel distretto dell’Argirocastro a 240 chilometri da Tirana, nel sud dell’Albania. Ci abitano poco più di 2’500 persone. Per caratteristiche morfologiche potrebbe somigliare a Moudon o Palézieux. Fino agli anni ’80 era un minuscolo e povero villaggio rurale, ma poi qualcosa è cambiato. Due anni fa è balzato agli onori della cronaca per la sua specialità: la coltivazione di marijuana. Dagli anni ’90 in quel villaggio la coltivano tutti: nonni, nipoti, donne e massaie. In ogni prato, in ogni via, in ogni luogo si trovano piante di canapa. Secondo i dati della polizia italiana, si producono circa 900 tonnellate di cannabis all’anno, per un valore di 4,5 miliardi di euro, pari a quasi la metà dell’intero prodotto interno lordo del Paese. La droga parte via mare per l’Italia o via camion dalla rotta balcanica ed inonda il resto d’Europa. Dopo anni di indagini le piantagioni erano state fotografate e le autorità albanesi si erano impegnate a eliminarle. Nel giugno del 2014 parte così l’assedio delle forze di polizia ai narcotrafficanti albanesi. Ottocento agenti dei reparti speciali sono scesi in campo e dopo tre giorni di guerriglia a suon di Kalashnikov hanno inferto un duro colpo all’organizzazione: 56 all’epoca gli arresti. Nell’operazione erano state sequestrate 26 tonnellate di marijuana e distrutte 90.000 piantine. Ma è davvero finita qui la storia criminale di Lazarat? “Sarebbe ingenuo pensarlo” – spiega un giornalista di Tirana a la Stampa – “la produzione è stata ferma per un periodo, ma intanto i magazzini segreti sono rimasti pieni di droga da smerciare”. Proprio nel mese di aprile a Batrovci, un piccolo comune tra Serbia e Croazia, viene scoperto dalle forze dell’ordine un camion sospetto. Era colmo di marijuana celata tra mobili e carta igienica. In tutto sono stati sequestrati 63 chili della sostanza, due albanesi sono finiti in manette. Secondo le autorità era diretto proprio in Svizzera. La Fedpol ha confermato “i sequestri effettuati nei Paesi balcanici dimostrano che la marijuana albanese si trova in tutta l’Europa centrale ed occidentale. Gran parte dell’erba venduta in Svizzera è stata coltivata in Albania”. In un anno si stimano che si consumino dalle 40 alle 60 tonnellate nel nostro paese. “Sapendo che ogni grammo di erba costa in media 10 franchi, il mercato della cannabis ha un valore tra i 400 e i 600 milioni l’anno”, ha sottolineato al settimanale il Caffè Pierre Esseiva, docente responsabile di una ricerca sulle droghe all’Università di Losanna.

 

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Piantine a Lazarat, Albania

 

Il monopolio dell’eroina parla albanese

I gruppi criminali albanesi hanno anche un’altra “specializzazione”: l’eroina. Sono loro i “padroni” dello spaccio della sostanza in Svizzera. La conferma ci giunge dal Commissario capo dell’antidroga ticinese Stefano Mayor “Gli albanesi hanno il monopolio del mercato dell’eroina in Svizzera italiana e anche nel resto del paese”. L’ultimo arresto risale allo scorso 8 giugno, un cittadino albanese è stato sorpreso con la droga che voleva contrabbandare in Svizzera attraverso il valico autostradale di Basilea-Weil am Rhein. Un altro importante sequestro risale al 21 aprile scorso, quando su un treno a Rivera, a nord di Lugano, le Guardie di Confine hanno fermato un 27enne albanese con addosso 120 grammi di eroina destinata al mercato elvetico. In tutto sono oltre venti, gli spacciatori albanesi fermati dalle forze dell’ordine nell’ambito d’inchieste mirate nel 2015 (in totale sono stati sequestrati 3.4 chili di eroina nel solo Ticino). “Dopo i turchi negli anni ’90, hanno preso il controllo dello spaccio e del trasporto in Europa e in Svizzera i gruppi criminali albanesi”, ci spiega ancora Mayor. Secondo le ultime stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e della prevenzione del crimine (UNODC), ogni anno, il giro d’affari internazionale dell’eroina si aggira attorno ai 55 miliardi di dollari. L’Afghanistan produce circa 340 tonnellate (il 95% della sostanza nel mondo), molta di più rispetto ai più diretti concorrenti: Messico (che ne produce 23,5) e Birmania (45) “Circa un terzo dell’eroina prodotta in Afghanistan viene portata in Europa attraverso la rotta balcanica, mentre un quarto passa dall’Asia Centrale e dalla Russia, seguendo la rotta settentrionale,” spiega il rapporto dell’UNODC.

La Nigeria a Losanna

Oltre alle organizzazioni albanesi, ad essere attivi soprattutto nella Svizzera romanda (ma anche a Zurigo e Lucerna) sono i gruppi nigeriani e più in generale dell’Africa occidentale. Questi oltre alla tratta dei migranti e al controllo della prostituzione, sono dediti allo spaccio di cocaina e cannabis. Lo testimonia una vasta operazione antidroga andata in scena a Losanna a inizio maggio. Centotrenta gli agenti che hanno letteralmente assaltato un locale pubblico in Avenue de Morges. Era la base logistica di un gruppo criminale africano. In tutto sono state controllate 60 persone, 12 sono state arrestate e 10 denunciate per infrazione alla legge sugli stranieri. Nell’intervento durato sei ore sono state sequestrate quantità di cocaina e cannabis, e materiale per scommesse clandestine. Questo il più grosso colpo ai gruppi criminali nigeriani inferto nel Canton Vaud. Sempre secondo i dati dell’UNODC tra il 2004 e il 2007, sono emerse almeno due diverse rotte nell’Africa occidentale: una in Guinea e Guinea-Bissau, un’altra sul Golfo del Benin, che si estende dal Ghana alla Nigeria. I trafficanti colombiani trasportano cocaina a bordo della ‘nave madre’ fino alle coste dell’Africa occidentale, prima di scaricarla su imbarcazioni più piccole. Una parte della cocaina prosegue il proprio viaggio via mare fino in Spagna e in Portogallo per poi finire in tutta Europa.

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Losanna, Av. de Morges

La maggior parte della cocaina infatti arriva dal Sud America. Le stime ufficiali, dicono che la produzione è tuttavia diminuita negli ultimi anni, a scapito del boom dell’eroina sempre più a buon mercato. Come maggiore produttore di polvere bianca si posiziona il Perù (con 50 tonnellate l’anno) davanti alla Bolivia (20) e la Colombia (47). Proprio la terra natìa di Pablo Escobar sembra però aver riconquistato la supremazia in questo mercato specifico, avendo aumentato la produzione del 44 per cento nel corso del 2015. La droga dall’America latina viene trasportata in Europa per lo più via nave attraccando nei porti di Rotterdam o Anversa. Dall’Olanda o dal Belgio poi arriva in Svizzera via camion o treno, nonché, se in piccole quantità, via macchina con i cosiddetti “corrieri” o “muli”, piccoli spacciatori al soldo delle organizzazioni. Dei porti importanti sono anche quelli di Gioia Tauro e Genova controllati prevalentemente dalla ‘ndrangheta e dalle organizzazioni mafiose italiane. Come “hub” fondamentale c’è anche la Spagna dove arriva per lo più via aereo dall’Argentina, dal Venezuela, e dal Brasile, da qui la coca si disperde per il tutto il Continente. Vari arresti di trafficanti hanno fatto inoltre concludere alla Fedpol che un altro “hub” importante è l’aeroporto di Douala nel Camerun che funge da punto di transito.

Recentemente l’ex direttore dell’UNODC, Antonio Maria Costa, ha affermato che nel 2009 ben 325 miliardi di euro provenienti dal narcotraffico sarebbero stati impiegati per fronteggiare problemi di liquidità del sistema bancario europeo, specie delle grandi banche inglesi, svizzere e italiane vicine al tracollo dopo il fallimento di Lehman Brothers. Il Commissario europeo agli Affari interni, Dimitris Avramopoulos, presentando il 31 maggio scorso a Lisbona la relazione europea sulla droga 2016 ha affermato che “il problema delle sostanze illecite in Europa, non sta per nulla diminuendo, anzi!”. Il giro di affari della droga nel mondo è calcolato attorno ai 580 miliardi di franchi. In tutto il globo sono 250 milioni le persone che assumono droghe almeno una volta l’anno, 25 milioni i tossicodipendenti. In Svizzera un terzo dei cittadini ha già provato la cannabis, e in 500 mila nel 2014 l’hanno consumata almeno una volta. La Relazione europea sulla droga 2016 conferma inoltre che l’ecstasy è tornata ad essere uno degli stimolanti preferiti dai festaioli di tutta Europa, Svizzera inclusa. Il mercato delle sostanze stupefacenti è dunque sempre più florido. Se da un lato si chiude la rotta dei Balcani per i migranti, dall’altro la via che fu dalla seta descritta da Marco Polo è ben aperta. Ora è la via della droga, quantità immense di droga.

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Cartina di Limes

(articolo apparso su La Cité, luglio)

Quelle donne ultras

Rotti tutti i paradigmi del tifo calcistico, dopo gli uomini le donne. Bande tutte al femminile si stanno allenando per “salutare” gli stranieri alla Coppa del Mondo del 2018 in Russia. Picchiare gli avversari? “È facile come fare una zuppa di barbabietole”, spiega la leader di un gruppo ultras russo.

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Yana Danilova, 23 anni, tifosa  del Lokmotiv Mosca

 

Sono donne, sono giovani, sono belle. C’è Yana 23enne, recentemente ha avuto un figlio. C’è Maria, giovane modella di Mosca. Poi c’è Olga, il suo corpo è pieno di tatuaggi, lei è una di alto profilo. Le accomuna una sola passione: il calcio, o meglio il tifo per il calcio. Loro sono le ultras russe, pericolosissime ultras russe. Gli schemi mentali e i preconcetti si sgretolano come neve al sole. In un mondo misogino, razzista e gerarchico come quello delle curve essere donna è un limite di genere che rende ancora più difficile emergere. Farsi rispettare è una necessità. La violenza e la spregiudicatezza sono la regola.

Dopo gli scontri di questi giorni all’Europeo francese si è tornato a parlare del pericolo del tifo violento negli stadi e soprattutto fuori dagli stadi, ma il fenomeno che sembra nuovo, è un altro. Non c’è solo Alexander Shprygin, l’ultranazionalista russo espulso due volte dalla Francia dopo che sabato scorso è rientrato tranquillamente a Tolosa per vedersi il match tra Russia e Galles. Se il noto capo ultrà russo filonazista, considerato vicino al Presidente Vladimir Putin, ha suscitato proteste e interrogativi in Francia, passa in silenzio il tifo in rosa.

Yulya Sergeeva, ha 20 anni vive a Ekaterinburg negli Urali. Lei è un ultras con i muscoli d’acciaio, si fa chiamare Eva Braun, come la compagna di Hilter. Poi c’è l’ex regina della bellezza Olga Kuzkova, ben nota per i suoi messaggi sui social media a sfondo razzista, tra cui uno denigratorio contro gli omosessuali, definiti “pervertiti”. La 23enne Yana Danilova, invece è un ultras del Lokomotiv Mosca, ha recentemente preso il “congedo” maternità dalla sua carriera di fan radicale e si è ritirata attualmente dagli eventi calcistici. Poi c’è la Miss del calcio russo, a cui hanno tolto il riconoscimento dopo che è emerso che era razzista. Spesso pubblicava sul suo profilo contenuti molto pesanti contro ebrei e neri.

Come gli uomini anche le donne si “allenano” nei boschi. Da alcuni video su youtube si può vedere che le bande al femminile si ritrovano in luoghi appartati nei dintorni di Mosca e a squadre si attaccano l’una contro l’altra. Sul sito del Dailymail si spiega che sono delle vere e proprie preparazioni di arti marziali in vista per la Coppa del Mondo del 2018 che si effettuerà proprio in Russia. Pugni, calci, donne gettate a terra, tutto è consentito pur di farsi rispettare. “Ho iniziato a seguire il calcio con gli ultras uomini, quindi ho deciso di fondare un gruppo tutto al femminile. Per me il tifo non è solo una roba da uomini. Tutti possono fare questo ‘ lavoro’”, ha spiegato al quotidiano una delle leader di una banda legata allo Spartak Mosca. “Noi siamo indipendenti anche se delle volte aiutiamo i ragazzi a disegnare graffiti e fare striscioni. Per tutto il resto siamo un gruppo a parte”.

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Yulya Sergeeva, 20 anni, la chiamano Eva Braun

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La 22 enne ex miss del calcio russo

Il fenomeno delle donne nelle curve russe trova le sue radici circa una decina di anni fa. Quando alcune fidanzate di capi ultras hanno iniziato a seguire la squadra del cuore. Non è chiaro oggi quanti siano i gruppi tutti al femminile nel paese degli Zar, ma il fenomeno è sicuramente in crescita. Non si sa nemmeno quante ultras siano andate in Francia per Euro 2016. Dai messaggi social tuttavia una cosa è certa: le tifose russe sono pronte per la Coppa del Mondo 2018. “Aspettiamo gli ospiti stranieri al WC2018”, ha scritto una ultras su Facebook. Sono lontani gli anni in cui Rita Pavone cantava: “Perché, perché la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita di pallone…”. Ora l’emancipazione e la rivincita passa anche dal calcio.

 

 

 

 

Chi sono gli hooligan russi?

Stanno mettendo a ferro e fuoco la Francia. Da oltre vent’anni non si vedevano scontri così a una competizione calcistica. Dietro ai tifosi russi però si celano gruppi ben organizzati, con logiche paramilitari. E la polizia francese, troppo impegnata sul fronte terrorismo, arriva in ritardo.

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Non sono semplici tifosi, sono gruppi ultras, la squadra, la patria: è la loro religione. I colori della bandiera sono da difendere ad ogni costo. Ci sono regole, rigore, dedizione: è questa la grammatica del tifoso.

Quello che sta accadendo in Francia è una vera e propria guerriglia tra fazioni. Gli inglesi, coloro che hanno inventato gli hooligan, ormai vivono del retaggio del passato. Si ritrovano ebbri e molto spesso disorganizzati. Per lo più si tratta dei tifosi che hanno fatto la storia negli anni ’80-’90. Mancano le nuove generazioni dopo la lotta al tifo violento lanciata in Gran Bretagna oltre trent’anni fa. I russi e in generale i gruppi dei paesi dell’Est, invece, sono gruppi organizzatissimi, con una logica paramilitare. Per la maggior parte vicini all’estrema destra, ex militari, abituati alla guerra. I più temuti sono quelli del CSKA Mosca, chiamati Yaroslavka, ci sono anche gli Union, i Gladiators e gli Shkola dello Spartak Mosca. Feroci sono anche i più recenti Music Hall dello Zenit San Pietroburgo o i Veselye Rebyata (gli Allegri Ragazzi) nati nel 2011 sempre a San Pietroburgo. Ci sono inoltre i gruppi polacchi, anche loro molto numerosi e violenti in questo Europeo. Sono chiamati “Chuligan” e riprendono il logo hooligan sulle loro magliette. Che i tifosi russi siano addestrati per gli scontri di Marsiglia, lo si capisce anche dalle parole del procuratore Brice Robin che si sta occupando delle indagini sulle violenze che sono scoppiate l’11 giugno prima della partita Inghilterra-Russia. Il gruppo di violenti sarebbe stato formato da almeno 150 persone “preparate per azioni ultrarapide e ultraviolente”, capaci di non farsi arrestare. Negli scontri sono state ferite 35 persone, dieci sono state rinviate a giudizio per le violenze, ma tra loro nessun russo. Due russi sono stati arrestati per invasione di campo.

Per entrare a far parte del tifo organizzato i nuovi adepti – secondo alcuni anche se non si hanno conferme – devono superare delle prove violente. Il Sun lo ha definito l'”X factor” degli hooligan. Molti i video che ritraggono dei veri e propri “lotte tra squadre”, a suon di pugni e calci, a cui si sono sottoposti alcuni giovani per dimostrare il loro valore e guadagnarsi gli Europei. Una selezione organizzata e metodica, sotto gli occhi dei capi. Due “squadre” si scontrano in un bosco: chi passa la prima “scrematura” deve sottoporsi a un violento pestaggio da parte dei capi ultras. Non è dunque il caso, tutto nasce da azioni pianificate, esercitate, fino nel più piccolo dettaglio. Farsi un giro nei forum di tifosi è come andare sul campo. Si capiscono i meccanismi degli scontri. Un blogger molto esperto di tifo spiega che: “i russi con piccoli gruppi veloci, arrivano, caricano in mezzo a una massa che gran parte neanche capisce bene che sta succedendo, si picchiano con pochi. Poi si ritirano quando la massa inglese comincia a reagire e lasciano il campo alla polizia, che tanto punta il bersaglio grosso. Nel corpo a corpo fai fatica a stargli dietro, solo i “migliori” riescono”.

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Ci sono infatti tecniche come il Free-Fight, lo scontro libero che si fa con pugni e calci. Una tecnica nata 25 anni fa proprio in Gran Bretagna. In Svizzera i primi a importarla sono stati a fine anni ’90 i gruppi basilesi. Ma ci sono anche altre tecniche di arti marziali tipiche dei paesi dell’est come il “Systema” o “l’Ustawka”. Il primo è un sistema di combattimento derivato dalle scuole autoctone di arti marziali russe e cosacche. Si pratica a mani nude o con fruste, ma anche con armi da taglio, fino alle armi da fuoco utilizzate per la difesa, sia in guerra o in ambiente di caccia. Il secondo, l’Ustawka, invece è uno scontro fisico tra gruppi di persone che si svolge in un particolare momento e in un luogo concordato. Non è un caso che i primi scontri sono avvenuti al porto di Marsiglia, zona dove la polizia è poco presente. “In generale secondo me, che piace o non piace, in questi giorni vediamo il cambiamento nel “modello” più forte in Europa: perde quello inglese – anche un poco italiano – e vince quello dell’est che secondo me dominerà i prossimi venti anni”, sostiene il blogger. Vasselli, nome del capo curva degli ultras dei Gladiors i tifosi più cruenti dello Spartak, alcuni anni fa aveva dichiarato che i “supporter inglesi non sono altro che dei ciccioni pieni di birra. Non fanno più paura a nessuno, le autorità hanno tarpato le ali ai più violenti” – spiega Vesselli nel documentario di Discovery Channel sugli Ultras nell’ex Unione Sovietica. Infatti molti sono concordi nel dire che i russi in Francia sono giunti per far capire chi è il migliore al mondo. Sono loro i superiori ai tanto osannati e storici hooligan inglesi.

Ed è in difesa della patria che l’altro giorno il politico di estrema destra Igor Lebedev, membro del comitato esecutivo della FA sovietica, deputato, vice presidente del parlamento russo, ha difeso sollevando polemiche i tifosi russi. “I ragazzi hanno difeso l’onore del paese e non hanno permesso ai britannici di infangare la nostra patria”. Invece da parte sua il ministro degli esteri russo Lavrov ha deplorato le violenze dei tifosi, ma ha detto che “allo stesso tempo, non si può non sottolineare che azioni provocatorie di tifosi provenienti da altri paesi siano state ignorate”. Ed ora, in ritardo, arrivano le prime espulsioni e le prime reazioni delle autorità transalpine. La polizia troppo impegnata alla lotta al terrorismo di questi tempi ha dato poca importanza al pericolo del tifo violento. Nella notte sono stati effettuati controlli su diversi tifosi russi stamane all’uscita del loro hotel a Mandelieu la Napoule e alcuni di loro saranno espulsi dalla Francia perché si ritiene che costituiscano un pericolo per l’ordine pubblico. I 29 tifosi russi erano in procinto di recarsi a Lille, dove si gioca Russia-Slovacchia. Una cinquantina gli uomini della gendarmeria che hanno compiuto l’imponente operazione. In tutto sono già 323 i tifosi violenti fermati dalla polizia francese a partire dal 10 giugno, data d’inizio dei Campionati. Lo ha reso noto il ministero dell’interno francese, sottolineando che i fermi sono stati confermati per 196 persone (responsabili a vario titolo di violenze, furti o danneggiamenti), mentre altre 8 sono state condannate a pene detentive e 24 hanno ricevuto un ordine d’espulsione. Intanto un bus di tifosi russi è stato fermato alla frontiera l’altro giorno. E molti gruppi di squadre russe, i più temibili, dovrebbero ancora arrivare in Francia. Gli scontri dunque non sembrano arrestarsi. Fuori dagli stati si sta giocando un altro e ben diverso Europeo. Già George Orwell diceva che lo sport serio non ha nulla a che fare con il fair play. Esso è legato all’odio, alla gelosia, alla vanagloria, al disprezzo di tutte le regole. È sadico piacere nel testimoniare l’aggressività. In altre parole, è guerra ma senza sparatorie. Ma la violenza sì, e tanta.

 

“Si stanno comprando tutto”

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“Sono molto preoccupato per l’infiltrazione della criminalità organizzata in Ticino, sta erodendo letteralmente il tessuto economico. Se non facciamo qualcosa si compreranno tutto”. Sono parole forti, che lasciano di stucco, quelle del presidente delle Polizie comunali del Cantone, Dimitri Bossalini. Anche nella discreta e tranquilla Svizzera le organizzazioni mafiose italiane stanno diventando una problematica sempre più allarmante. A preoccupare è soprattutto la ‘ndrangheta. Bossalini è a capo della polizia nella regione del Vedeggio da circa due anni. Già da tempo alcuni esperti di sicurezza pensano che proprio in quella zona nel centro del Canton Ticino delle ‘ndrine si sarebbero radicate con una presenza fissa sul territorio. Ad essere sotto l’occhio dei riflettori vi è tra gli altri il comune di Lamone, un piccolo paese di soli 1’600 abitanti a circa 10 chilometri da Lugano, il centro finanziario del Cantone, il terzo per ordine di grandezza della Svizzera. “Che la ‘ndrangheta sia radicata in Ticino, è un’evidenza, è palese e lo dimostrano le inchieste”, ci spiega Bossalini. Come si evince nel rapporto della Polizia Federale del 2013 essa tocca soprattutto il settore immobiliare e quello della ristorazione. Ma non solo, anche il movimento terra e l’edilizia sono settori importanti per fare affari. “Hanno approfittato dei bassi tassi delle ipoteche per acquistare stabili con cui riciclare i loro profitti, in alcuni comuni è lampante”, spiega ancora Dimitri Bossalini, “e con queste persone ci stiamo abituando a convivere e a fare affari”. “Purtroppo – continua – in Svizzera per le indagini abbiamo spesso le mani legate: non abbiamo i mezzi che hanno gli inquirenti italiani ad esempio con le intercettazioni telefoniche e i pedinamenti, la legge è molto più restrittiva qui da noi”.

Pochi giorni fa proprio a Lugano, l’Osservatorio europeo di giornalismo dell’Università della Svizzera italiana e il gruppo di giornalisti d’inchiesta investigativ.ch hanno organizzato una conferenza sulla presenza della mafia in Svizzera. Un’occasione più unica che rara di vedere esperti e inquirenti rosso-crociati e italiani discutere assieme della tematica. “Non avete stragi o il vettore armato, non ci sono quasi mai regolamenti di conti, ma da voi la ‘ndrangheta si nasconde in una società ombra, e si annida nel sottobosco finanziario”, spiega il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, Antonio de Bernardo, anch’egli presente all’incontro. “Dovete fare soprattutto attenzione agli appalti pubblici, questo settore sta in cima al programma di investimenti dell’organizzazione mafiosa, lì si possono fare guadagni enormi. Mettendo le mani sui soldi statali si possono controllare anche aziende e lavoro. Uno strumento di potere fondamentale”.

Il legame è subito fatto con il progetto Alptransit, la trasversale ferroviaria alpina con la galleria più lunga al mondo, ben 57 chilometri, che proprio a inizio giugno verrà inaugurata in Ticino. Alla cerimonia sarà presente anche il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. A breve 3 responsabili del progetto saranno chiamati a giudizio perché ritenuti colpevoli della morte di un operaio, un 54enne di origine calabrese, schiacciato da una roccia all’interno del cantiere nel 2010. Gli imputati sono accusati di omicidio colposo. John Noseda procuratore capo del Ministero pubblico ticinese, titolare dell’inchiesta, spiega che “quando gli inquirenti arrivarono in loco, il luogo dell’incidente era stato completamente stravolto, con l’aggiunta di misure di sicurezza in precedenza non presenti. Ma nessuno dei trenta operai – racconta ancora Noseda – ha voluto parlare, perché avevano paura per il loro lavoro e la loro famiglia. Questa è omertà riconducibile alla mafia. I lavoratori vengono portati qui, sfruttati e minacciati come nelle più classiche logiche di stampo mafioso”, conclude duramente.

Alla ditta Condotte-Cossi, che si era aggiudicata il lotto di una delle Galleria della trasversale – più precisamente quella del Ceneri – nel 2008 in piena gara di appalto le era stato ritirato per alcuni mesi il certificato antimafia in Italia. Poi riottenuto solo grazie a un ricorso. Cinque manager, responsabili della costruzione di un tunnel nella Salerno-Reggio Calabria, sono stati arrestati all’epoca per concorso esterno in associazione mafiosa. Li si parlò di un vero e proprio patto con la ‘ndrangheta. “La Svizzera deve tenere l’attenzione alta sulle infiltrazioni, in certi casi e a dipendenza del grado di infiltrazione negli appalti pubblici l’organizzazione criminale può avere un controllo su tutto quello che succede” –  tuona ancora Antonio de Bernardo – “decidere chi lavora e chi non può lavorare anch’esso è uno strumento di potere enorme, così si crea consenso tra la popolazione”.

“Mancano gli anticorpi nel nostro paese, non solo per le gare di appalto, ma in tutto il settore finanziario”, gli fa eco l’avvocato Paolo Bernasconi, il padre della legge anti-riciclaggio elvetica. Bernasconi spiega che “più c’è sottobosco finanziario, più c’è mafia”. In Ticino dove la finanza la fa da padrona non esiste una forma efficace di prevenzione. “Mancano le norme, ma sopratutto mancano i controlli se si pensa ad esempio che per oltre 1’200 fiduciarie c’è solo un ispettore di controllo. Va detto – conclude Bernasconi – che tuttavia il dipartimento cantonale delle istituzioni sta studiando delle misure per arginare le società bucalettere, che in Svizzera sono sempre più diffuse e dove i riciclatori hanno campo libero per nascondere i propri proventi”. Al vaglio del Governo federale rimane ancora l’inasprimento dell’articolo 260 ter che sancisce il reato di organizzazione criminale, l’equivalente del 416bis italiano, ma per il quale la pena massima è soltanto di 5 anni. Bernasconi incaricato dalla Confederazione ha effettuato una perizia con la quale propone una serie di provvedimenti per contrastare la criminalità economica organizzata. A breve dunque il Parlamento svizzero sarà chiamato a decidere.

(Articolo apparso sul FattoQuotidiano online)