
Sono le 15.19 di lunedì 9 aprile. Matteo Vinci è seduto al volante della sua Ford Fiesta, affianco a lui c’è suo padre 70enne, Francesco. Le gomme scorrono a zig zag sul cemento precario della strada, una piccola via dissestata di campagna stretta tra i campi del Vibonese. Cervolaro è un piccola località nei pressi di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Quei terreni però non sono terreni qualunque, sono il simbolo del potere, il potere delle “famiglie”.
È lì che all’improvviso un forte boato rompe il silenzio della campagna, poi le fiamme divorano la vettura. In poco tempo l’auto prende le sembianze di una carcassa triturata da uno sfasciacorrozze. Quando arrivano i primi soccorsi, il puzzo di bruciato è ancora forte. Matteo Vinci è già deceduto. Il padre viene trovato in gravi condizioni. È lui che ha dato l’allarme. Secondo una prima ricostruzione il figlio sarebbe morto lentamente, l’esplosione gli ha fratturato le gambe ed è rimasto bloccato in quella palla di fuoco dove viene bruciato vivo.
Sulle cause non sembrano esserci dubbi. A far esplodere l’auto a metano non è stato un malfunzionamento nell’impianto di alimentazione, ma una bomba. L’ipotesi che viene avanzata dai Carabinieri, che stanno svolgendo le indagini sotto le direttive della Procura di Vibo Valentia, è che l’ordigno sia stato collocato nel vano portabagagli della vettura. Ancora non si sa come sia stato possibile azionarlo. L’ipotesi più plausibile dicono gli inquirenti è quella di un radiocomando a distanza. Non si é esclude neppure quella di un timer. Tuttavia filtra dagli ambienti investigativi, si é trattato di un lavoro compiuto da professionisti e che denota l’elevato livello criminale dell’atto.
Matteo Vinci, ex rappresentante di medicinali, era stato candidato alle ultime elezioni comunali nella lista “Limbadi libera e democratica”. Lui non era mai finito in indagini di mafia. Aveva qualche precedente, ma solo per una banale rissa. E proprio con quella rissa aveva incrociato il destino con il potentissimo clan Mancuso. S. Mancuso, sorella Giuseppe “Mbrogghia”, boss ergastolano dell’omonimo clan mafioso, è proprietaria degli appezzamenti di terreno confinanti con il suo campo e secondo alcune fonti, come ricorda “la Repubblica”, su quei pochi spazi che i Vinci avevano nelle campagne che gli uomini del clan erano intenzionati a mettere le mani.
Le frizioni erano sfociate due anni fa in una violenta lite. Ad avere la peggio il padre di Matteo che viene ferito gravemente con un’arma da taglio. Per quella lite finiscono in manette i due Vinci, la Mancuso, la figlia e il marito D. Di Grillo. Ed è proprio lui che in queste ore è stato nuovamente arrestato. Per ora gli inquirenti non fanno legami tra l’omicidio e la rissa. Ufficialmente il 67enne è stato arrestato per porto abusivo di armi. Ma l’attentato è un segnale, una firma che lascia poche interpretazioni. La firma è quella della ‘ndrangheta, ancora capace di far esplodere una macchina in un paese europeo. Proprio in quella Regione dove alle recenti elezioni Matteo Salvini è stato eletto.
“Sto parlando con Dio”
La ‘ndrina Mancuso è una delle più potenti al mondo, si estende da Vibo all’Australia sino al Canada, dalla Brianza all’Emilia Romagna. Il loro potere si basa su quello che ormai è il classico settore di guadagno della mafia calabrese: la cocaina. Ed è proprio in un vasto traffico di polvere bianca dal Sud America che la ‘ndrina Mancuso si lega alla Svizzera. Nell’inchiesta Stammer, nel gennaio 2017 vengono arrestate 42 persone, per 39 di esse, pochi giorni fa, sono stati chiesti in primo grado complessivamente 338 anni di reclusione per il reato di narcotraffico internazionale. A finire nelle maglie della giustizia in quest’operazione c’era anche S. Minotti, 63 anni, di Bellinzona, che si era recato a Medellìn per prendere parte ad alcuni incontri con i narcos colombiani al fine di acquistare 8 mila chili di coca. Lui secondo i parenti è deceduto in Repubblica Dominicana, dove viveva, per gli inquirenti è invece latitante. «Appena torno qui vado a parlare con la massima autorità locale, protetta da 300 persone (…) qui stiamo trattando con il Dio», aveva riferito il ticinese al suo contatto calabrese. “Dio” era Jaime Eduardo Cano Sucerquia, detto «Jota Jota», potente narcotrafficante colombiano. In quell’occasione il business sfumò a causa dell’intervento delle forze dell’ordine italiane e statunitensi. La droga avrebbe potuto fruttare secondo gli inquirenti un miliardo e 700 mila euro.
“Sponsor di bocce a Bellinzona”
I legami della cosca Mancuso si estendono alla Svizzera anche per altri casi. È infatti a Chiasso che nel 2015 a R. Bevilacqua, figlio del più noto Ferruccio, boss di Vibo Valentia vicino ai Mancuso che vengono trovate tre società fittizie create con l’intento di riciclare i soldi del clan. Entrambi vengono arrestati nell’inchiesta Hydra e accusati di essere gli usurai dell’organizzazione. A finire in manette all’epoca anche l’ex capogruppo dell’Italia dei Valori della Regione Lazio Vincenzo Maruccio. Con loro finisce dietro le sbarre anche A. Bordogna, residente assieme a Bevilacqua in un appartamento usato come pied-à-terre a Seseglio.
A loro due erano intestate le tre aziende ticinesi attive nel campo dell’edilizia e delle costruzioni. Di queste l’unica traccia che rimaneva poco dopo l’arresto erano delle bucalettere inutilizzate in Corso San Gottardo. In quell’occasione a colpire gli inquirenti fu una frase, all’apparenza insignificante, ma che lascia presagire la volontà delle cosche di inserirsi nel tessuto sociale. “Siamo anche sponsor di una società di bocce di Bellinzona” diceva intercettato Bordogna. Sugli sviluppi dell’inchiesta da parte elvetica, la procura federale si era trincerata dietro al più classico “no comment”.
Nuovi importanti arresti
Ma ieri è stata una giornata importante per il lungo e sottile filo che lega la Calabria alla Svizzera. In manette sono finiti due imprenditori già indagati dell’operazione “Martingala” tra loro M. Surace. Lui ha fatto “confluire in Ticino – si legge nelle carte dell’inchiesta in nostro possesso – i proventi di una ingente truffa ai danni dello Stato, derivanti da un sostanzioso premio assicurativo”. I due “avevano chiesto ed ottenuto i soldi poi depositati presso un conto bancario elvetico”. L’indennizzo assicurativo, grazie ai servizi di A. Scimone, principale indagato dell’inchiesta, doveva rientrare in Italia attraverso due società slovene, ma i controlli anti-riciclaggio del paese li fecero bloccare, mandando in fumo l’affare.
In tutto ieri sono quattro gli imprenditori arresati nell’inchiesta “Monopoli” ritenuti affiliati alle cosche di ‘ndrangheta. Sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni e autoriciclaggio. Avrebbero contato sull’appoggio delle più pericolose cosche di Reggio per accumulare enormi profitti illeciti, riciclati poi in fiorenti attività commerciali. Sotto sequestro sono finite numerose aziende, centinaia di appartamenti e decine di terreni edificabili nel capoluogo, per un valore complessivo di oltre 50 milioni di euro.
M. Surace e il suo socio hanno fatto confluire nei conti elvetici circa 22 milioni di euro. I due all’epoca si sarebbero rivolti a fratelli Martino, finiti in manette nell’operazione “Rinnovamento”, che ha portato alla condanna di F. Longo e dell’ex fiduciario di Chiasso O. Camponovo, di appiccare un incendio nella loro fabbrica di acque. Con quel sostanzioso premio assicurativo e grazie al cosiddetto “sistema Scimone” (uomo di spicco dei clan), un’articolata costruzione di società fittizie e scatole cinesi, hanno permesso ai clan di tutta la provincia reggina di “lavare” centinaia di milioni di euro proventi del narcotraffico.
Mentre scrivo queste righe le indagini sulla morte di Vinci continuano serrate, a occuparsene c’è anche il pm della DDA di Catanzaro Antonio De Bernardo, colui che guidò le indagini dell’inchiesta Helvetia che sgominò la cosiddetta società di Frauenfeld. E intanto proprio in questi giorni un altro De Bernardo fa discutere il Ticino. In queste ore in piazza a Locarno centinaia di persone saccheggiano i salvagenti a forma di fenicottero dell’installazione “Apolide” di Olly De Bernardo. Quel sottile filo che collega la Calabria alla Svizzera si intreccia nuovamente, e come sempre lo fa nell’indifferenza della gente.