Essere qui a Parigi due anni dopo, è come rivivere addosso quei momenti. Alle 21.21 la prima esplosione allo stadio Saint-Denis. Dopo 4 minuti la prima sparatoria nei pressi dei due bar Le Carillon e Le Petit Cambodge, su Rue Bichat, uno in faccia all’altro. Quattro terroristi sparano all’impazzata. Fanno 13 morti e decine di feriti. Gli attacchi continuano ma è solo alle 21.48 che si consuma la tragedia del Bataclan. La situazione di allerta finisce tardi, a terra finiranno prive di vita trivellate dai colpi degli AK47 130 persone. Un’allerta però mai sopita del tutto.
Oggi la Francia si muove, ma si muove con passo titubante. La polizia è ovunque, i militari con i mitra presidiano la strada, i CRS, les Corps Republican de securité, scrutano ogni mossa dei passanti.
Un esempio di questo stato di cose, è quando io e il mio compagno di viaggio stiamo camminando in una strada discosta di Calais. Siamo vicino alle “Nuove Giungle”, piccoli accampamenti illegali di migranti nascosti nei boschi, tra alcuni magazzini. All’improvviso una camionetta si ferma davanti a noi:
“Attendete lì” ci dice il poliziotto che scende dal mezzo irrequieto.
“Certo, ha bisogno?” Chiedo.
“Dovete aspettare che il treno sia passato”. È una chiara scusa per controllarci: “favorite i documenti”.
“Certo, ecco io sono giornalista” gli dico mostrando la mia tessera. La faccia del suo collega cambia, mi analizza. “Non sono qui per lavoro, solo curiosità”, spiego.
Un altro agente sogghigna, ha sguardo di sfida. È un uomo robusto, un metro e 80 di altezza, sulla quarantina, testa rasata, in mano una bomboletta spray, grande, molto grande, forse gas lacrimogeno. Potrebbe usarla contro di noi? Mi chiedo tra me e me. Di sicuro l’impatto è intimidatorio e non lascia indifferenti.
Il treno passa, dopo i controlli di rito ci lasciano andare. Noi ci guardiamo inebetiti e un po’ scossi. Alla fine che abbiamo fatto? Stavamo semplicemente camminando a pochi passi da un accampamento precario di migranti.
Questa però è la Francia di oggi, sotto scacco. Che si muove, ma con passo felpato. Le cicatrici sono ovunque e le sirene danno poca tregua. Ogni scusa è buona per controllare e la reazione dello Stato in questa guerra assimmetrica è difficile da pianificare. In tutto secondo le cifre di luglio del ministero degli Interni, in Francia sono 15 mila i “fichier S”, persone sotto controllo perché legate in qualche modo al radicalismo islamico.
Di pochi giorni fa l’operazione a cavallo tra Svizzera e Francia che ha portato all’arresto di 8 persone. Tra loro un 27enne svizzero, sedicente Imam, radicalizzato sul web dal 2014, e la sua compagna una 23enne colombiana. Abitava nel Canton Neuchâtel a St-Aubin-Sauges e gli inquirenti stanno indagando per capire i progetti della cellula terroristica. I loro discorsi su Telegram hanno accelerato l’operazione. A destare dubbi, tra le altre cose, l’iscrizione al canale criptato Ansar At-Tawhid, dove sono iscritte 400 persone tra cui anche gli assassini di padre Amel, sgozzato a Saint-Etienne-du-Rouvray (Seine-Maritime) l’estate del 2016.
Cosa progettavano è ancora presto dirlo, le indagini lo chiariranno. Certo è che oggi il paese si sforza a dormire sonni tranquilli.
Per le strade di Parigi la gente cammina in gran numero, come sempre nella propria quotidianità. Certi indifferenti, altri sorridenti o pensierosi. Colpiscono ancora le mescolanze tra culture, qui la multiculturalità nonostante tutto vince ancora, un crogiolo di lingue e etnie. Ma la gente non dimentica e la paura quella non può vincere, mai!