Le “piante” di Frauenfeld crescono in Calabria

La più grande operazione antimafia all’estero si è svolta martedì sotto i nostri occhi. E il Ministero pubblico della Confederazione sapeva già da tempo della presenza di una cosca in Svizzera. Intanto il procuratore generale di Palermo Scarpinato lancia l’allarme: “Anche le autorità elvetiche devono eseguire inchieste autonome”. Una storia di oggi che viene da lontano.

 

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La camicia blu aperta sul petto, la pancia gonfia dal pranzo, le mani stringono i pantaloni alla vita per non farli cadere. Giuseppe Oppedisano ha fatto 1’500 chilometri per essere lì. Davanti a lui guida Michele Oppedisano, è giovane, ma il retaggio della sua famiglia lo obbliga a essere in quel luogo. Con loro c’è Romeo Carmelo Cavallaro, nonostante il caldo, indossa una maglia nera e pantaloni jeans scuri. L’aria è infatti afosa in quel 18 agosto 2009. È passato da poco ferragosto. Le vie di Rosarno sono deserte. La gente o prende il sole al mare, o dorme al riparo in qualche fresco rifugio climatizzato. Le lancette segnano le 15.34. Proprio in quell’istante la Kia nera targata Turgovia varca il cancello del frutteto di Don “Mico” Oppedisano. I tre scendono dalla macchina. Giuseppe è nato a Monsoreto il 19 dicembre 1958, ma è residente da 40 anni anni in Svizzera, al numero 1 di Stubenakerstrasse, a Isikon. Michele, nato a Cinquefrondi il 28 gennaio 1983, lui è residente a Kefikon sempre nel canton Turgovia (indagato e poi caso archiviato nel 2012). Cavallaro, invece è l’unico che è nato su territorio elvetico, proprio a Frauenfeld, il 23 ottobre 1973.

Un lungo viaggio, ma loro devono essere lì. Qualcosa di importante sta per accadere. All’ombra di quegli aranci le 4 persone non stanno contrattando un semplice carico di prodotti agricoli. Sotto le fronde di quegli alberi, e non in un’opulente stanza, l’organizzazione criminale più potente al mondo disegna il suo destino, come molte altre volte d’altronde. È un vero e proprio rito esoterico. I tre “elvetici” si sono recati in Calabria per ricevere le doti, o meglio le “piante” come si usa nel gergo ‘ndranghetista. Queste nomine permettono di poter vantare poteri anche sul territorio svizzero. Come un battesimo davanti a Dio, nessuno può scalfire quello che a Rosarno è stato trasmesso. Una certificazione di appartenenza esportabile ovunque. Un documento che vale in ogni paese.

Leggere le oltre duemila pagine del Decreto di Fermo dell’operazione “Crimine” che nel 2010 ha portato all’arresto di oltre 300 ‘ndranghetisti in tutto il mondo, è un pugno allo stomaco. E fa ancora più male in questi giorni. Graffia con unghie laceranti, la bocca si secca. Sì perché in quegli atti giudiziari è tutto già scritto. E quello che viviamo noi oggi non è altro che un film al rallentatore. Una pellicola in bianco e nero che va a scatti a causa delle increspature del tempo. Il sapore che rimane è aspro. È amaro come le arance di don “Mico”. All’anagrafe Domenico Antonio Oppedisano, 81 anni all’epoca, è considerato il capo della ‘ndrangheta. La più alta carica dell’organizzazione mafiosa della Società Maggiore, venne arrestato grazie alle intercettazioni e ai video degli inquirenti. Fu condannato a 10 anni carcere per associazione mafiosa. Secondo il pm di Reggio Calabria  Antonio De Bernardo lui era il detentore delle regole. Il suo potere permetteva di tenere unite le cosche disseminate per il mondo. Un meccanismo di protezione che ha permesso all’organizzazione Calabrese di essere la più solida, inviolabile nel tempo. Ed è proprio grazie alla sua mediazione, nell’agrumeto di Rosarno nel 2010, che la faida tra la Società di Frauenfeld e quella di Singen (in Germania), venne risolta sul nascere.

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Don “Mico” Oppesidano

Ora a distanza di 6 anni giungono i 15 arresti dell’operazione Helvetia, nata nel 2014, la più grande mai effettuata fuori dal territorio italiano. Tuttavia , nemmeno dopo la sentenza storica nei confronti del capo della locale elvetica Antonio Nesci, condannato a 14 anni di carcere lo scorso ottobre, le autorità elvetiche si sono mosse. Basti pensare che le prime richieste di estradizione da parte italiana datano febbraio 2015. I 15 fermi invece sono dell’8 marzo 2016. Più di un anno di distanza. Suona ancora più come una beffa il fatto che sei dei membri sono stati rilasciati dopo soli tre giorni dall’arresto. Per tornare in libertà hanno dovuto pagare una cauzione “adeguata alla loro situazione economica”, ha dichiarato il portavoce dell’Ufficio federale di giustizia Raffael Frei. Il solo degli arrestati che in un primo momento si era detto disposto ad essere estradato ha nel frattempo ritirato la sua autorizzazione. Due altre persone sono state sentite, ma non possono essere estradate poiché sono di nazionalità svizzera. Ciò vuol dire che sono a piede libero, senza nessuna accusa a loro carico. Le autorità stanno anche trattando con i nove ancora in carcere per una rimessa in libertà a precise condizioni perché – secondo l’UFG – “il pericolo di fuga e di inquinamento delle prove è minimo, la maggior parte dei presunti mafiosi arrestati vivono da anni in Svizzera e già sapevano di essere nel mirino negli inquirenti italiani”.

In questo contesto le parole del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato fanno ancora più male: “La magistratura svizzera deve cominciare a operare in autonomia, con sue indagini, con suoi procedimenti perché non c’è soltanto la mafia italiana in Svizzera. C’è la mafia dell’est, ci sono le mafie balcaniche, che vedono alcuni Paesi, per esempio la Svizzera, come una base logistica. L’operazione Helvetia, è soltanto la punta dell’iceberg.” conclude il magistrato. La Svizzera dunque come una base al centro dell’Europa: la cerniera tra Germania e Italia. Dove non esiste il reato di associazione mafiosa, dove neppure il fatto di sapere della presenza di una cosca è sufficiente a far scattare le manette. Alla luce di tutto ciò il procuratore generale della Confederazione Michael Lauber ha annunciato che i reati legati alla criminalità organizzata saranno coordinati da un solo magistrato. Un passo avanti, anche se al momento è difficile dire se basterà. I lavori infatti non dovrebbero mancare in futuro. Basti considerare che secondo alcune stime in Svizzera sarebbero attive dalla 5 alle 6 cosche ‘ndranghetiste. Secondo il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria, Nicola Gratteri sarebbero addirittura una ventina.

Molti dunque gli eventi noti alla giustizia. E solo pochi gli arresti se considerata la portata del fenomeno. Già nel 2010 un articolo del Caffè parlava della presenza del boss ‘Ntoni Nesci a Turgovia. Sono passati sei anni ma le “piante” di Frauenfeld nascono ancora al sole della Calabria. E le loro radici sono ben radicate nell’agrumeto di Rosarno.

 

 

 

Mille franchi. La banconota della discordia

La moneta più “preziosa” al mondo non si tocca secondo la BNS. L’Europa invece vuole eliminare il taglio da 500 euro, la cosiddetta banconota dei narcos. “Sono altri i metodi per combattere il riciclaggio” commenta la ex magistrata Ferrara Micocci.

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Jacob Burckhardt continuerà a guardarci. Sì perché lo studioso e storico elvetico che compare sulle banconote da mille franchi non ha i giorni contanti. La Banca nazionale svizzera non intende rinunciarvi, nonostante le discussioni in atto nell’Unione europea per il ritiro dei 500 euro. Per la Banca centrale europea e il presidente Mario Draghi la sua abolizione renderebbe più difficile per terroristi e criminali spostare soldi in contanti.

Il 1000 franchi elvetico vale quasi il doppio del 500 euro e dieci volte il 100 dollari, la banconota più “pesante” americana. A livello mondiale esiste solo un altro biglietto più prezioso, il 10’000 dollari di Singapore, che ha un valore di 7000 franchi. Questo è usato però principalmente nelle transazioni fra banche e nella vita normale – contrariamente alla banconota elvetica – non ha alcun ruolo. Inoltre dal 2014 non viene più emesso. Nonostante ciò la BNS non si scompone e spiega che “il valore di una banconota non ha alcun impatto sugli sforzi per combattere il crimine”. Per ora dunque non si tocca il 1000 franchi.

Sulla scelta della BNS si è espresso anche lo scrittore italiano Roberto Saviano sulla sua pagina Facebook. “Chiunque studi le organizzazioni criminali sa che le banconote di grosso taglio possono essere spostate con facilità, depositate in banca e riciclate. La risposta dell’Istituto di emissione elvetico è stata: “Il taglio di una banconota non è un elemento determinante nella lotta a criminali e terroristi. Eppure i soldi che il Cartello di Sinaloa versava nella filiale messicana di HSBC erano contanti”. Anche secondo il magistrato Nicola Gratteri nell’economia della ‘ndrangheta e dei narcos: grazie al suo taglio, il taglio da 500 è il preferito per gli scambi di denaro tra criminali perché è estremamente facile portarla con sé.

Ma oggi i metodi possono essere anche altri per riciclare denaro di dubbia provenienza. Ad esempio passare dalle economie emergenti o dai paradisi fiscali come Panama o Seychelles, senza per forza possedere contante. “Secondo me la BNS ha ragione” – commenta la ex Procuratrice pubblica Natalia Ferrara Micocci. “Trovo invece più sensata la nuova norma antiriciclaggio introdotta il 1 gennaio 2016 che prevede per i commercianti professionisti – come ad esempio il gioielliere – l’obbligo di verifica per importi superiori ai 100 mila franchi”.

Una scelta del Parlamento elvetico, questa, spinta dalle pressioni del GAFI “il Gruppo d’azione finanziaria” che già nel 2012 aveva raccomandato ai paesi membri dell’OCSE – dunque anche alla Svizzera – di inasprire le norme contro il riciclaggio di denaro. Altre dunque le misure che possono combattere il riciclaggio. E in Svizzera si può fare certamente di più, ma va detto che, anche se in ritardo, qualcosa si sta muovendo. Ad esempio grazie all’inclusione nelle PEP – ossia quelle persone con cui gli intermediari finanziari devono essere sempre vigili a causa dei rischi di corruzione –  di altri attori sensibili. Dittatori, trafficanti, organizzazioni criminali sotto i riflettori. Ma oltre a questi, sono sottoposti ai controlli anche deputati e senatori elvetici, così come i dirigenti delle federazioni sportive che operano a livello mondiale. Per Sepp Blatter e compagnia c’è poco da sorridere. Il GAFI tornerà a riunirsi e a fornire le sue indicazioni sulla lotta ai fenomeni di criminalità finanziaria nella primavera 2016. Si attendono dunque altre misure. Ma per ora è certo che i mille franchi non si toccano. Lo sguardo di Burckhardt ci veglierà ancora in futuro e forse anche lui ci aiuterà a stare vigili sui traffici di denaro illeciti.

 

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